C’è uno scandalo che negli anni Ottanta inflisse un colpo ferale alle esportazioni di vino italiano all’estero. Un colpo non mortale, grazie alla capacità di reazione non dei politici, ma dei produttori. I quali ritrovarono in breve tempo orgoglio, fierezza e naturalità.
L'Italia ha imparato la lezione, e ora la mette a disposizione del mondo. È ancora vivo e bruciante il ricordo di uno scandalo alimentare che nel marzo 1986 uccise venti persone, causando decine di casi di cecità, ricoveri, con danni sanitari di miliardi di lire e commerciali centinaia di volte superiori, e vittime non ancora risarcite. Il vino al metanolo.
L’alcool metilico è un componente naturale del vino, in piccola parte. Per mascherare la scadente qualità della spremitura delle uve, innalzare illecitamente la gradazione alcolica o addirittura spacciare per vino l’acqua colorata con polverine, alcuni produttori in Piemonte e Emilia Romagna cominciarono ad addizionarne le bottiglie.
Bevendone più di 25 ml il metanolo provoca cecità, coma, fino alla morte
Dopo i primi ricoveri all’ospedale Niguarda di Milano, fu il caos. I morti si susseguivano, dalla Lombardia alla Liguria. Centinaia i ricoverati. Il ministro dell’Agricoltura Filippo Pandolfi apparve in tv cercando di tranquillizzare la gente. I giornali pubblicavano liste di vini proibiti. Navi cisterna sequestrate in Francia e bottiglie in Germania, crollo delle esportazioni di oltre un terzo (da quasi 18 a circa 11 mln ettolitri), fatturato del settore sceso da 1.668 a 1.260 miliardi di lire. 21 milioni di ettolitri rimasti invenduti, rispetto al 1985.
Furono emanate misure d'emergenza (“fantasiosa insalata di disposizioni”, secondo i magistrati dell’epoca) eterogenee, non inerenti ai metodi di produzione ma solo fiscali e procedurali, e non sempre adeguate: alla fine, dopo la mancata conversione di un primo decreto, il secondo (d.l.282 del 18/6/1986) divenne legge (l.7/8/1986 n.462). Ma le norme rimasero disordinate, come in ogni momento di convulsa preoccupazione, mentre il vecchio DPR 12/2/1965 n.162 sulla produzione di mosti e vini era ancora, a detta degli intenditori, troppo permissivo.
Anche i controlli non furono subito reindirizzati nel modo giusto. Scriveva nel suo manuale del 1992 Lionello Rizzatti, decano dei Vigili Sanitari italiani: “Per una vera vigilanza preventiva, l'esperienza insegna che i prelievi vanno intensificati ed eseguiti più negli esercizi di vendita che nei locali di produzione, perché raramente le frodi vengono perpetrate nei locali autorizzati. I fatti luttuosi del vino al metanolo sono un esempio di come si sia data la precedenza ai controlli sull'etichettatura più che sul contenuto interno”. Nacquero i Nas, i Nuclei Anti Sofisticazione dei Carabinieri.
Saranno undici le condanne: il produttore maggiormente coinvolto, Giovanni Ciravegna della provincia di Cuneo, sconterà 10 anni di reclusione per accuse quali associazione per delinquere, omicidio volontario plurimo, lesioni gravi, adulterazione di sostanze alimentari. Coloro che attuarono la sofisticazione - grossisti, imprenditori, trafficanti di alcol metilico, titolari e gestori di cantine - sapevano benissimo che il vino al metanolo era un veleno.
La reazione dei produttori italiani
Per molti fu proprio quello scossone a rilanciare la produzione del vino di qualità e a far capire ai consumatori che sotto certi prezzi non può essere vino vero.
Dopo un tracollo così spaventoso, l’immagine della vitivinicultura italiana fu macchiata, ma non irrimediabilmente. È opinione diffusa che l’inversione di rotta dei produttori piccoli e grandi verso l’innalzamento della qualità produttiva, la corsa al riconoscimento geografico e tipico, il ritorno alla natura e l’acquisizione di altissime competenze siano stati i viatici per risollevarsi. Oggi, come dimostrano i confronti economici, la situazione è del tutto diversa, positiva e rassicurante, addirittura gloriosa. Nel primo trimestre 2014 le esportazioni di vino sono cresciute del 3% a 1,1 miliardi di euro, a fronte di volumi esportati stabili (4,7 milioni di ettolitri) in un contesto mondiale di decelerazione. Il Veneto ha allungato le distanze dal Piemonte per l'export regionale di vini (1,6 miliardi di euro), grazie al Prosecco. L'export di vino veneto solo in America in 10 anni è cresciuto del 70 per cento. In sei anni l'export di vino toscano è aumentato del 50 per cento in cinque anni e ora vale 750 milioni annui, quello dell'Emilia-Romagna del 60 per cento, toccando quota 388 milioni. Le esportazioni di vino italiano in Cina sono esplose del 305 per cento negli ultimi cinque anni. “È tempo di ragionare sulle prospettive – afferma un rapporto di Fondazione Symbola - su come affrontare la concorrenza forte e agguerrita dei produttori internazionali che si concretizza, slealmente, anche con la vinopirateria. Per far questo occorrono poche cose concrete: tutelare i vitigni antichi e autoctoni che costituiscono un grande patrimonio e valore aggiunto; valorizzarne le assolute qualità attraverso mirate politiche di marketing; favorire e finanziare ancor di più la ricerca affinché queste qualità possano essere trasmesse in prodotti vinicoli di alto pregio; promuovere il turismo del vino con azioni che valorizzino l’identità dei territori come veri e propri distretti; rafforzare sempre di più il legame tra vino e territorio, forte antidoto contro ogni futura tentazione illegale”.
La lezione è a disposizione di tutto il mondo. Non tutti l’hanno accolta. Nel 2002 un americano riuscì a vendere alcol denaturato colorato come vino; nel settembre 2012 le forze dell’ordine della Repubblica Ceca hanno avvertito che in commercio potevano trovarsi oltre a 15.000 litri di vodka al metanolo che aveva già ucciso 25 persone. Ma, salvo questi episodi, la sfida è dare ai produttori certezze imprenditoriali e offrire a tutti gli appassionati altrettante garanzie. Come? Attraverso la natura, l’esperienza, la qualità.