Nelle fotografie di Ferdinando Scianna il Mediterraneo parla e narra una storia fatta di famiglie, gesti, tradizioni e riti. Il fotografo di Magnum, che cura la mostra per il Cluster Bio-Mediterraneo a Expo Milano 2015, racconta il cibo attraverso la fotografia, tra memoria, sapori e paesi.
Nel libro Visti&Scritti che ha pubblicato per Contrasto alla foto di sua figlia Francesca a cinque anni è associato il ricordo dei gelsomini, del loro profumo e del loro sapore: che valore hanno nella sua memoria e in quella della sua famiglia quel profumo e quel sapore?
I sapori sono una delle declinazioni dell’identità e della memoria più forti che noi ci portiamo dietro. Ancora di più lo diventano se poi uno per tante ragioni è costretto o sceglie di emigrare. Allora, nella distanza, quei profumi e quei sapori diventano davvero potenti. Quando mi imbatto nel profumo del gelsomino arabo, allora come con una madeleine di Proust mi ritorna in mente la mia infanzia.
I sapori sono una delle declinazioni dell’identità e della memoria più forti che noi ci portiamo dietro. Ancora di più lo diventano se poi uno per tante ragioni è costretto o sceglie di emigrare. Allora, nella distanza, quei profumi e quei sapori diventano davvero potenti. Quando mi imbatto nel profumo del gelsomino arabo, allora come con una madeleine di Proust mi ritorna in mente la mia infanzia.
Quali sono le sue altre "madeleine"?
I ricci di mare, il pane panelle, il sapore dei limoni verdelli che mangiavamo a tutto spiano quando eravamo bambini.
I ricci di mare, il pane panelle, il sapore dei limoni verdelli che mangiavamo a tutto spiano quando eravamo bambini.
È stato un lavoro in progress, una mostra in quello spazio era difficile da identificare a prescindere dall’enorme presenza di immagini che ci sarà dappertutto, dentro e fuori il Cluster, dentro e fuori i Padiglioni nazionali. Abbiamo cercato di definire tre spazi all’interno del Cluster in cui in quattro temi cercherò con una quarantina di fotografie di evocare la mia idea di Mediterraneo, attraverso la terra, attraverso il mare, attraverso i riti della famiglia: sono i luoghi dove il cibo, i sapori, i paesaggi della nostra vita si esprimono e danno quella peculiarità al Mediterraneo che ho conosciuto.
Questa mostra è un suo “ritorno” ideale in Sicilia?
Per ritornare in un posto bisogna avere la sensazione di essere andati via. Io sono andato via fisicamente dalla Sicilia, anche se ci torno continuamente, però non sono mai andato via né culturalmente, né sentimentalmente, né intelletualmente. Quindi non posso tornare in Sicilia, perché me la porto dentro.
Per ritornare in un posto bisogna avere la sensazione di essere andati via. Io sono andato via fisicamente dalla Sicilia, anche se ci torno continuamente, però non sono mai andato via né culturalmente, né sentimentalmente, né intelletualmente. Quindi non posso tornare in Sicilia, perché me la porto dentro.
La fame io l’avevo sfiorata da bambino. Adesso noi diciamo “ho fame” ma in realtà vogliamo dire che abbiamo un buon appetito. La fame è un’altra cosa, la fame è occhiaie è occhiaie incavate, è crampi allo stomaco. Quando ero bambino la fame corrispondeva a un fatto, quando si diceva “in quella famiglia manca il pane”, davvero mancava il pane. Adesso grazie al cielo, almeno in Italia, almeno in certi contesti, la miseria non c’è più, rimane molta povertà, ma la miseria è quell’altra cosa che io poi ho incrociato da fotografo in giro per il mondo, in molti luoghi, nel Bangladesh, in Africa. In Eritrea, ad esempio, c’erano campi in cui morivano cinquanta persone al giorno per la siccità. Quella è la fame. La fame è una cosa per cui un pugno di riso dato sulle mani aperte fa la differenza tra la vita e la morte. Naturalmente l’esperienza di viaggiare è anche l’esperienza di sapori diversi, di altre tradizioni ed è probabilmente la maniera migliore per entrare in contatto con un’altra cultura. Nel Rio delle Amazzoni al sud della Colombia il sapore della bistecca di coccodrillo ti fa capire molte cose.
Nello stupendo libro per Contrasto Ti mangio con gli occhi che “non è un libro sulla cucina e ancora meno un libro di cucina” ha scritto: “dovunque vada nel mondo, sono un adepto convinto delle meraviglie cibarie che si comprano e consumano per strada”: perché?
Quando arrivo in un posto in cui non sono mai stato prima e devo fotografare faccio due cose: sicuramente la prima è quella di mangiare un cibo di strada, anche perché ci sono cresciuto con i cibi di strada. Quando ero piccolo mangiare una mafalda con le panelle, un pane arabo con la ricotta, le stigliole, il pane e panelle era una delle maniere di vivere. In tanti posti senza sapere neanche che cosa sono quelle bizzarre vivande che vengono fritte o bollite, io le assaggio e assaggiandole mi sembra che mi metto in bocca lo stesso sapore delle persone che devo fotografare e questo me le fa capire meglio.
L’altro mio rito è quello di andare a cercare le vetrine dei fotografi locali perché dalla maniera in cui loro fanno i ritratti delle persone e in cui le persone si riconoscono, capisco le aspirazioni, i sogni, la cultura di un posto.
Spreco di cibo. Sempre in Ti mangio con gli occhi c’è una foto che lei definisce “Una lava di arance, una colata di morte”. E hanno anche tentato di impedirle di fotografare questo massacro. In effetti è un’immagine iconica di uno scempio. Cosa ritrae?
Ritrae un paradosso, uno scandalo, perché succede che si producono più arance o limoni di quanto non si riesca ad immetterne sul mercato. Mi è successo di fotografare anche le pere in Emilia allo stesso modo. Allora, siccome ce ne sono troppe, dopo avere finanziato la produzione, se ne distrugge una parte per organizzare la rarità, per difendere il prezzo. Questo è uno scandalo, al punto che quelli stessi che lo gestiscono mi hanno quasi proibito di fotografarlo, non soltanto perché difendevano certe ignobili speculazioni sull’operazione, ma probabilmente per un sentimento di vergogna. Ho seguito questi camion che andavano a buttare in certe discariche le arance contaminate da veleni perché non potessero essere rimesse sul mercato. Era enorme questa quantità di arance che scivolava da un pendio e, avendo io fotografato l’eruzione dell’Etna, ho rivisto una colata di lava. Invece era una colata di spreco e di vergogna.
Ritrae un paradosso, uno scandalo, perché succede che si producono più arance o limoni di quanto non si riesca ad immetterne sul mercato. Mi è successo di fotografare anche le pere in Emilia allo stesso modo. Allora, siccome ce ne sono troppe, dopo avere finanziato la produzione, se ne distrugge una parte per organizzare la rarità, per difendere il prezzo. Questo è uno scandalo, al punto che quelli stessi che lo gestiscono mi hanno quasi proibito di fotografarlo, non soltanto perché difendevano certe ignobili speculazioni sull’operazione, ma probabilmente per un sentimento di vergogna. Ho seguito questi camion che andavano a buttare in certe discariche le arance contaminate da veleni perché non potessero essere rimesse sul mercato. Era enorme questa quantità di arance che scivolava da un pendio e, avendo io fotografato l’eruzione dell’Etna, ho rivisto una colata di lava. Invece era una colata di spreco e di vergogna.
Il tema di Expo Milano 2015 è il cibo. Su quali aspetti visuali si sofferma maggiormente quando lo fotografa? Ritualità? Sensualità? Sensorialità, testure, trame, forme?
Io sono un fotografo con uno spirito da reporter, quindi mi interessa il cibo nel suo farsi, nel suo consumarsi, per cui ci sono nelle mie fotografie delle famiglie a tavola che lo consumano. Questo ha a che fare con la famiglia, ma anche con l’identità di un gruppo di persone che condivide un certo cibo. La fotografia di una tavola di legno nella quale si fa asciugare la salsa di pomodoro per fare l’estratto che poi si consuma in inverno può prendere addirittura aspetti da quadro astratto. Non riesco a costruire le foto, sono uno che vede le immagini, ne è colpito e le fotografa. Tutto nelle mie foto tende a raccontare qualche cosa. Naturalmente il racconto si fa attraverso la forma, attraverso la superficie, attraverso i colori quando ci sono - e ci sono anche quando le foto sono in bianco e nero. Fotografo sensualità e piacere, ma anche rito, ma anche strutture dell’organizzazione visiva del paesaggio, della casa.
Io sono un fotografo con uno spirito da reporter, quindi mi interessa il cibo nel suo farsi, nel suo consumarsi, per cui ci sono nelle mie fotografie delle famiglie a tavola che lo consumano. Questo ha a che fare con la famiglia, ma anche con l’identità di un gruppo di persone che condivide un certo cibo. La fotografia di una tavola di legno nella quale si fa asciugare la salsa di pomodoro per fare l’estratto che poi si consuma in inverno può prendere addirittura aspetti da quadro astratto. Non riesco a costruire le foto, sono uno che vede le immagini, ne è colpito e le fotografa. Tutto nelle mie foto tende a raccontare qualche cosa. Naturalmente il racconto si fa attraverso la forma, attraverso la superficie, attraverso i colori quando ci sono - e ci sono anche quando le foto sono in bianco e nero. Fotografo sensualità e piacere, ma anche rito, ma anche strutture dell’organizzazione visiva del paesaggio, della casa.
Nel libro Visti&Scritti c’è il ritratto di Gianni Berengo Gardin. Ci ri-racconta di cosa gli hanno regalato al suo compleanno gli amici?
Io sono sorpreso che a Gianni Berengo Gardin abbiano affidato il Cluster del Riso, perché bisognava creare per lui un Cluster del gelato, perché lui è un ossesso del gelato. Una volta ad Arles come scherzo alla fine di un pranzo gli abbiamo fatto portare un vassoio con quaranta gelati e lui imperturbabile se li è mangiati tutti. Quando ha compiuto ottant’anni qualcuno ha avuto la felicissima idea di regalargli un ritratto scolpito di lui, la cui materia era il gelato. E lui quindi cannibalescamente si è mangiato se stesso in forma di gelato.
Io sono sorpreso che a Gianni Berengo Gardin abbiano affidato il Cluster del Riso, perché bisognava creare per lui un Cluster del gelato, perché lui è un ossesso del gelato. Una volta ad Arles come scherzo alla fine di un pranzo gli abbiamo fatto portare un vassoio con quaranta gelati e lui imperturbabile se li è mangiati tutti. Quando ha compiuto ottant’anni qualcuno ha avuto la felicissima idea di regalargli un ritratto scolpito di lui, la cui materia era il gelato. E lui quindi cannibalescamente si è mangiato se stesso in forma di gelato.