Hamburger connection e deforestazione. Norman Myers, tra i massimi esperti mondiali di biodiversità, spiega come l’incremento rapidissimo delle esportazioni di carne dal Centro America verso le catene di fast food degli USA sia strettamente collegato alla scomparsa delle foreste tropicali.
Norman Myers (nato il 24 agosto 1934, oggi è il suo compleanno: auguri!) è un analista ambientale britannico tra i massimi esperti mondiali di biodiversità. Studia al Keble College, a Oxford, dove si laurea nel 1958. Trascorre alcuni anni in Kenya e inizia in Africa un’esperienza come fotografo naturalista. Tornato agli studi, all’Università di Berkeley (California) ottiene un dottorato nel 1973. Continua la sua carriera come professore di Economia ambientale presso il Green College dell’Università di Oxford e la Duke University (in Usa). Tra i fondatori del movimento ambientalista britannico, la sua produzione scientifica conta centinaia di pubblicazioni (si è occupato di inquinamento, di pressione demografica, di agricoltura e Paesi in via di sviluppo, di cambiamenti climatici e degli effetti che avranno sulle migrazioni dei popoli) che gli sono valse svariati riconoscimenti internazionali. Svolge attività di consulenza sui temi del rapporto tra sviluppo e ambiente per la Banca Mondiale, per l’ONU e per la Casa Bianca.
La hamburger connection
Hamburger connection: due parole per indicare, nell’incremento rapidissimo delle esportazioni di carne dal Centro America verso le catene di fast food degli Usa, una delle principali cause della deforestazione. La definizione, coniata da Myers nei primi anni ’80, ha denunciato e descritto il fenomeno di trasformazione delle foreste centroamericane (Panama, Costa Rica, Guatemala) e successivamente anche brasiliane in pascoli destinati all'allevamento di bovini. Non era facile collegare, prima degli studi di Myers, gli hamburger e le bistecche con l’estinzione di specie animali e vegetali e la deforestazione. Ma nei primi anni del Duemila si calcolava che il 72% della deforestazione amazzonica in Brasile era servito ad ottenere pascoli per il bestiame (oppure terreni per la coltivazione di cereali economici con i quali foraggiare gli animali da macello) e che gli Stati Uniti importavano il 33% di tutta la carne di manzo del mercato mondiale e quindi la quasi totalità della produzione dei pascoli tropicali.
Le foreste che scompaiono
Le foreste tropicali sono la gloria della natura e costituiscono una parte viva del tessuto culturale di molti Paesi. Eppure oggi gran parte di esse è a rischio. Metà delle foreste tropicali sono già state distrutte e nel corso degli anni Ottanta il tasso di deforestazione è quasi raddoppiato.
La loro ricchezza biotica supera ogni immaginazione. In Perù, su un unico cespuglio possono vivere tante specie di formiche quante se ne conoscono nelle isole britanniche. Recenti ricerche dimostrano che le coperture vegetali delle foreste tropicali, che coprono soltanto il 6 per cento della superficie terrestre, accolgono il 70 per cento di tutte le specie della Terra.
Quando entriamo in farmacia per acquistare un medicinale dovremmo essere riconoscenti alla ricchezza delle foreste tropicali: un farmaco su quattro è ricavato da piante che vivono in tali foreste, sia esso un antibiotico, un analgesico, un diuretico, un lassativo, un tranquillante, le gocce per la tosse.
Ciò vale anche per un folto gruppo di sostanze alimentari e di materiali industriali. E tutto ciò rappresenta soltanto una parte del potenziale delle foreste tropicali, in quanto gli scienziati, finora, hanno analizzato soltanto in modo superficiale non più di una specie vegetale su dieci delle 125.000 presenti in esse. Possiamo quindi sperare che in futuro esse forniscano all'uomo un'infinità di altri prodotti, a condizione, beninteso, che gli scienziati arrivino prima dei dissodatori.
L’ottimismo della volontà
Myers ha dimostrato che le foreste subiscono un impoverimento più rapido rispetto a qualsiasi altra area ecologica, colpa della conversione per farne coltura e pascoli sfruttati dalle multinazionali per produrre carne a basso costo. Ma il suo messaggio non è disperato. Lo studioso ha individuato le 25 aree più ricche di vita del pianeta, che vanno dai paesi equatoriali dell'America centrale alle foreste brasiliane, dall'area mediterranea (Italia compresa) alla costa occidentale africana, dai Caraibi alla California, dalle Filippine alla Cina centromeridionale, al Madagascar. Tutti i 25 punti “caldi”, sostiene, potrebbero essere salvaguardati con “appena” 500 milioni di dollari l'anno, che ridurrebbero le estinzioni di almeno un terzo. E con un cambio di cultura alimentare. La sfida ci responsabilizza enormemente e fa delle generazioni attuali delle “privilegiate”, che possono cioè scegliere di salvare la nostra Terra. “Viviamo in un periodo senza precedenti nella storia dell'uomo”, sostiene Myers. “Siamo davvero fortunati perché siamo di fronte ad una sfida cui possiamo ben dire "o adesso o mai più". Le generazioni passate non hanno avuto questa opportunità perché i problemi ecologici non avevano queste dimensioni. Le generazioni future non avranno questa stessa opportunità, perché se non agiremo noi al più presto, i nostri discendenti non avranno altro da fare che raccogliere i cocci che lasceremo loro”. Insomma, sta a noi.