Perché compromette la capacità di generare il più importante prodotto dell’economia globale: il nostro cibo. Accresce inoltre le possibilità che alcuni Paesi debbano dipendere dai mercati internazionali per nutrirsi, mettendo queste nazioni in posizione di crescente vulnerabilità.
Un caso emblematico di perdita delle risorse naturali è la regione in cui lei vive, la California, che sta soffrendo una siccità particolarmente grave. Qui – come in molte altre aree del mondo – alla scarsità d’acqua si sommano il degrado dei terreni agricoli e il cambiamento climatico. Quali sono le conseguenze economiche di questo fenomeno?
In California, la peggior siccità degli ultimi cent’anni ha messo in ginocchio gli agricoltori. Tre anni di piogge scarse hanno ridotto del 36% la disponibilità di acque di superficie a uso agricolo, costringendo a ricorrere alla falda. Ma anche l'acqua di falda aggiuntiva non è bastata. Così 173mila ettari di terra irrigata, circa il 5% del territorio agricolo, è stato lasciato a maggese. Il costo economico è stimabile in 2,2 miliardi di dollari e 17mila posti di lavoro persi.
L’irrigazione impiega il 16% dell’acqua per produrre il 44% del cibo del mondo. Il cambiamento climatico, però, sta compromettendo le riserve idriche. Quali sono i principali fattori che causano la scarsità d'acqua?
Si possono riscontrare quattro fattori principali.
Un driver della scarsità idrica è la crescita demografica.
L’acqua è una risorsa rinnovabile, ma la disponibilità di acqua dolce è generalmente predefinita nella maggior parte dei Paesi. Quando le popolazioni crescono, l’ammontare pro capite diminuisce.
Ma ci sono anche fattori economici. Se alcuni Paesi esportano merci che richiedono un consumo idrico intensivo - come i prodotti agricoli – questi Paesi stanno sostanzialmente esportando acqua, e questo può mettere sotto pressione le scorte di quella nazione.
Anche i fattori fisici hanno un ruolo nel determinare la scarsità idrica. Se l’acqua di falda è sovrasfruttata (ovvero ne viene estratta più di quella compensata dalle piogge) si riduce o addirittura si elimina una riserva importante. Al momento, circa il 20% delle falde mondiali è sovrasfruttato. Attraverso l’uso di satelliti, è stato rilevato per esempio che, tra il 2003 e il 2011, il Tigri e l’Eufrate hanno perso tanta acqua quanta ne può contenere il Mar Morto e il 60% di questo calo è dovuto al sovrasfruttamento.
In ultima analisi, il cambiamento climatico può produrre scarsità idrica, sia generando siccità, sia riducendo il manto nevoso, una riserva naturale il cui scioglimento in primavera ed estate è una fonte d’acqua in molte regioni. In California, si prevede che il manto nevoso si ridurrà di una percentuale tra il 12 e il 40% entro la metà del secolo, e del 90% nel 2100. Uno studio condotto nel 2012 su 405 bacini fluviali, che garantiscono il 75% dell’irrigazione globale, riscontrava una grave carenza idrica almeno per un mese l’anno in circa 200 di questi bacini, per sei mesi l’anno in 35 bacini.
La domanda di cibo è destinata ad aumentare del 60% entro il 2050, ma lo stesso Ipcc stima che ci sarà un calo delle rese agricole nette a livello globale dello 0,2% ogni dieci anni (quindi del 2% ogni secolo). Dal 15 al 24% dei terreni globali sono soggetti a degrado, ma la domanda dovrebbe aumentare del 14% per ogni decennio. Come affrontare queste sfide?
Il sistema agricolo globale avrebbe tre grandi ‘riserve’ di cibo alle quali poter attingere in caso di scarsità: i raccolti attualmente destinati agli allevamenti, quelli utilizzati per I biocombustibili, e gli sprechi di cibo.
Più di un terzo dei raccolti di cereali nel mondo è stato utilizzato per produrre carne nel 2014. La produzione di biocarburanti ‘si mangia’ circa il 40% dei farinacei negli Stati Uniti, il 50% della barbabietola da zucchero in Brasile, e l’80% della produzione di olio di semi nell’Unione Europea.
Nel frattempo, circa un terzo del cibo prodotto nel mondo è sprecato: negli allevamenti, in produzione, nella distribuzione o nei consumi domestici.
Tra queste tre grandi riserve di cibo, c’è ampio spazio per recuperare le perdite di produzione dovute al degrado del suolo.
Ma è quello che si sta facendo? I consumatori dei Paesi ricchi sono preparati a ridurre i propri consumi di carne? I programmi di biocarburante saranno ridimensionati, anche via via che le fonti fossili diventano più scarse? E come persuadere produttori e consumatori a ridurre lo spreco di cibo? Anche se queste riserve sono ampie, il loro uso può essere limitato da considerazioni di tipo politico.
Lei ha dichiarato che negli ultimi 25 anni gli Stati Uniti hanno perso una superficie agricola pari allo Stato dell’Indiana e solo in California, tra il 2008 e il 2010, è stata persa un'area corrispondente ai tre quarti di San Francisco. Molte zone agricole vengono destinate allo sviluppo urbano. Quali risposte sono proponibili?
Si possono portare avanti alcune soluzioni tecniche ed economiche. Riguardo alla scarsità idrica, per esempio, l’irrigazione a goccia può produrre grande efficienza, e anche gli agricoltori possono essere spinti a scegliere colture che richiedono meno acqua. Ma più in generale, bisognerebbe considerare le risorse agricole come strategiche, invece di trattarle come commodity a condizioni di mercato, così da creare incentivi per la loro conservazione. Facilitazioni alle fattorie di proprietà privata, per esempio, potrebbero assicurare che non venga venduto terreno produttivo per l’urbanizzazione o per altri sviluppi non agricoli. Allo stesso modo, il cibo non dovrebbe essere una mera commodity di mercato. Dovrebbero essere previste misure di protezione per assicurare forniture adeguate e per evitare oscillazioni di prezzo eccessivamente altalenanti.
Che tipo di governance serve per garantire l’accesso al cibo?
In tempi recenti, un interessante sviluppo è stata l’enunciazione del ‘diritto al cibo’. La FAO ha introdotto questo concetto nel 2004 con l’adozione delle Linee Guida sul Diritto al Cibo, e almeno 28 nazioni ne fanno esplicita menzione nelle proprie carte costituzionali. Potrebbe essere necessario codificare la food security anche negli accordi commerciali internazionali, in modo che il cibo non possa essere trattenuto per ragioni politiche.